Da qualche giorno sta girando online un video prodotto dall’American Museum of Natural History, che mostra in poco più di cinque minuti […] la storia di quanti siamo diventati negli ultimi 200mila anni circa […]. È stato un processo notevole, contando che fino a qualche migliaio di anni fa noi umani eravamo meno di un milione, e concentrati in pochissime zone: dopo l’introduzione dell’agricoltura, è andato tutto in discesa.
«La storia della distribuzione dell’umanità in cinque minuti», il Post, 14 novembre 2016.
La risposta in un Pixel
«La popolazione mondiale ha impiegato un periodo lungo quanto tutta la storia dell’umanità, dalle origini fino ai primi anni dell’Ottocento per arrivare al traguardo del miliardo di abitanti. Poi, in meno di due secoli, è passata da 1 a 6 miliardi. Quest’ultimo traguardo è stato raggiunto nel 1999. Per aggiungere un ulteriore miliardo sono bastati 13 anni. La soglia del settimo miliardo l’abbiamo infatti superata nel 2012. Come si spiega questa eccezionale accelerazione dell’espansione della nostra specie sul suolo terrestre?
La storia della popolazione umana è stata caratterizzata da due grandi discontinuità che hanno profondamente cambiato il modo di vivere – ridefinendo le condizioni di base del sistema demografico – ma anche rivoluzionato le regole sociali, i rapporti produttivi, la relazione con l’ambiente e le modalità di uso delle risorse naturali. La prima discontinuità, quella più lontana nel tempo, si è verificata in concomitanza con la rivoluzione agricola del Neolitico, mentre la seconda, molto più recente, si è prodotta in interdipendenza con la rivoluzione industriale.
Con il Neolitico l’uomo diventa stanziale, inizia a coltivare la terra e ad allevare animali. Nascono le prime civiltà e aumenta la popolazione. Il pianeta, che fino al X secolo a.C. ospitava non più di 5 milioni di abitanti (equivalenti agli attuali residenti in Sicilia), vede estendersi la presenza umana nei millenni prima di Cristo fino a una consistenza approssimativa di 250 milioni. Una crescita dovuta soprattutto all’aumento della fecondità favorito dalla stanzialità. Il contrario di quanto avverrà con la seconda discontinuità che aprirà una fase in cui la crescita della popolazione sarà alimentata dalla riduzione della mortalità.
Dal punto di vista delle condizioni di vita e del sistema demografico poca cambia fino agli ultimi due secoli. Il ritmo stesso di incremento demografico, dopo l’impulso espansivo dato dal Neolitico, rimane basso. Al momento della scoperta delle Americhe la popolazione del mondo non arrivava al mezzo miliardo di individui. Per arrivare al miliardo tondo, come abbiamo detto, bisogna aspettare i primi anni del XIX secolo.
I primi 13mila anni circa di storia della civiltà umana sono stati caratterizzati da un’economia di sussistenza, strettamente dipendente dalle risorse della terra. Endemica era la presenza di epidemie e ricorrente il manifestarsi di gravi carestie. In questo lungo periodo contraddistinto da ridotta durata di vita, la fecondità era di tipo «naturale», nel senso che il comportamento riproduttivo delle coppie non era soggetto a un controllo deliberato e intenzionale: semplicemente nascevano tanti figli quanti ne venivano. Non si «sceglieva» di diventare genitori o di avere altri figli: stava nell’ordine naturale delle cose. Ciononostante, la fecondità poteva comunque variare anche in modo rilevante nel corso del tempo e da una comunità all’altra. Il numero complessivo di figli dipendeva soprattutto dall’età al matrimonio e dalla quota di persone che rinunciavano a sposarsi. Anche la durata dell’allattamento aveva un peso per il suo effetto nel prolungare gli intervalli tra le nascite.
La condizione tipica dell’Europa pre-industriale può essere rappresentata da un’età femminile al matrimonio attorno ai 23-24 anni, con un intervallo tra le nascite di circa tre anni e un’età all’arrivo dell’ultimo figlio attorno ai 40 anni o poco più. In tali condizioni il numero di nati vivi risultava pari a cinque o sei. Nonostante l’elevata natalità, la popolazione non cresceva molto, quantomeno nel lungo periodo, perché alti erano anche i rischi di morte. Era quindi del tutto naturale non solo fare tanti figli ma anche rassegnarsi a vedere la gran parte di essi morire prematuramente. Su cinque o sei figli in media che nascevano, solo due o tre arrivavano alla stessa età dei genitori. Questo significa che il rapporto tra le generazioni rimaneva pressoché stabile o in leggera crescita.
L’elevata mortalità ordinaria era poi inasprita da ricorrenti epidemie e da altri temibili eventi catastrofici. Se quindi negli anni «normali» il bilancio tendeva a essere positivo, con un surplus di nascite rispetto ai decessi, l’eccesso di crescita demografica rispetto alle risorse disponibili veniva poi periodicamente annullata dalla peste e da altri temibili flagelli.
Anche nei contesti più favorevoli, la durata media di vita difficilmente superava i 35 anni. Oltre alla particolare vulnerabilità della fase infantile, elevati rimanevano i rischi anche nelle fasi successive. Era poco comune arrivare a superare i 65 anni e ci si arrivava, nel caso, in condizioni di salute molto precarie.
Il sistema demografico di antico regime era quindi molto dispersivo: per questo è stato definito «disordinato» e «inefficiente». Disordinato perché era elevata la probabilità che i figli morissero prima dei genitori, sovvertendo l’ordine naturale del succedersi delle generazioni. Inefficiente perché una generazione di genitori doveva produrre una quantità di figli pari a oltre il doppio della propria consistenza numerica per farne arrivare in età adulta una quantità non inferiore alla propria.
Un sistema disordinato e inefficiente, quindi, ma con un ben definito e consolidato equilibrio. La seconda discontinuità porterà ordine ed efficienza, ma a costo della perdita dell’equilibrio.»
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