Andare o non andare alla guerra? Inutile girare attorno alle parole. La crisi libica presenta uno scenario su cui incombe l’opzione militare. Non è la prima volta che affrontiamo questo nodo. Dal crollo del muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica gli interventi militari di coalizioni variamente composte si sono susseguiti a ritmi incalzanti: Iraq 1991, Somalia 1992, Balcani 1993-1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libano 2006, Libia 2011, Siria 2013, senza contare altri interventi circoscritti al teatro africano, soprattutto da parte francese, il più importante dei quali riguarda quello in Mali nel 2013 per fermare l’ondata jihadista in quel Paese. In tutte queste operazioni l’Italia è stata presente a vario titolo e solo in Libano, iniziativa promossa fortemente dall’allora governo Prodi, non si è praticamente sparato un colpo: in quel caso fu interpretata alla lettera la filosofia delle operazioni di peacekeeping.
(Piero Ignazi, «Il dilemma della guerra», la Repubblica, 6 marzo 2016)
La risposta in un pixel
«Possiamo distinguere le Peace Keeping Operations (PKO) in operazioni di prima e di seconda generazione.
Le PKO di prima generazione sono operazioni paramilitari non coercitive, stabilite dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con il consenso delle parti interessate, e hanno lo scopo di mantenere la pace in una determinata zona del conflitto. Esse si basano sulle disposizioni contenute nel cap. VI della Carta delle Nazioni Unite. La maggior parte delle operazioni di peacekeeping effettuate durante la Guerra Fredda erano di questo tipo.
Dopo il 1989 c’è stata invece una moltiplicazione di PKO di seconda generazione, che sono operazioni coercitive: oltre agli interventi umanitari, ricordiamo le operazioni di peace-making (di ristabilimento della pace) e di peace-enforcement (di imposizione della pace). A differenza delle PKO, le operazioni di peace-making si effettuano quando il conflitto è ancora in corso; da sottolineare, inoltre, che la forza non è utilizzata contro un aggressore ma solo per stabilire la pace. Contro un aggressore identificato sono invece dirette le operazioni di peace-enforcement. Queste ultime si basano sulle disposizioni del cap. VII della Carta delle Nazioni Unite; pertanto, considerando la gamma di operazioni di pace promosse dall’ONU, si può affermare che tra le operazioni di mantenimento della pace del cap. VI bis e le operazioni d’imposizione della pace del cap. VII non esiste una distinzione netta, ma un continuum.»
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