Domande di oggi

20/09/2016

Pil e benessere sono la stessa cosa?


“Il Pil misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Era il 1968 quando Robert Kennedy tenne il suo famoso discorso sul Prodotto interno lordo. Quarantotto anni dopo ancora ci si interroga sull’opportunità di affidare al Pil la misura del benessere della società in cui viviamo.

Ad alimentare il dibattito ci ha pensato un piccolo stato nel cuore dell’Asia centrale: il Regno del Buthan con “L’indice di Felicità interna lorda”, introdotto per la prima volta dal Re Jigme Singye Wangchuck IV negli anni Settanta.

 

Marco Trabucchi, «Misurare l'economia? Una questione di felicità», Vanity fair, 19 settembre 2016

 

 

La risposta in un Pixel

 

No, per molte ragioni. Anzitutto quelle evocate da Kuznets: il Pil non considera tutte quelle attività da cui certamente dipende il benessere di molti che, però, non danno luogo a transazioni di mercato (per esempio, tutte le forme di lavoro non retribuito, dal volontariato al lavoro domestico) né tiene conto degli sforzi che gli individui compiono per svolgere le attività che fanno crescere il Pil; inoltre, la valutazione del Pil ha un carattere piuttosto arbitrario se è sensibile alla distribuzione dei redditi e, d’altro canto, quest’ultima potrebbe avere anche un’influenza diretta sul benessere sociale, visto che non è ragionevole assumere che esso non vari quando, per esempio, i ricchi diventano più ricchi, i poveri più poveri ma il Pil resta invariato.

Ma le difficoltà sono anche altre: il Pil non tiene conto del possibile depauperamento di forme importanti di ricchezza o di patrimonio, come quello naturale e ambientale; il Pil cresce se l’attività economica si ravviva per porre rimedio a qualche danno o disastro, come un terremoto, il cui impatto negativo sul benessere non viene in alcun modo rilevato; e ancora: il Pil potrebbe crescere mentre si diffondono attività dannose per la società come quelle collegate a traffici illegali. Quest’ultimo esempio è particolarmente attuale perché sono in via di realizzazione cambiamenti nelle modalità di contabilizzazione delle attività illegali che porteranno a includere pienamente nel computo del Pil il reddito a esse associato, con la conseguenza, tra le altre, che i paesi che si impegneranno a ridurre le attività illegali registreranno una caduta del PIL mentre invece il benessere effettivo migliorerà, o almeno così si spera.

Occorrerebbe, allora, chiedersi perché il Pil, e la sua crescita, abbiano costituito l’obiettivo prioritario – e, fino a tempi recenti, indiscusso – delle politiche economiche oltre che il criterio quasi unico per valutarne il successo. Le spiegazioni, naturalmente, possono essere molteplici. È però certo che oggi è estremamente difficile per chiunque, indipendentemente dagli ammonimenti di Kuznets, sostenere che il Pil rappresenti il benessere sociale, anche se non si dispone di un’idea coerente e precisa di quest’ultimo.

A impedirlo, per esempio, è quanto si afferma, con ricchezza di argomentazioni, nel Rapporto elaborato dalla Commissione istituita nel 2008 per iniziativa dell’allora presidente francese Nicolas Sarkozy e nota come Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi (dal nome dei tre autorevoli economisti che ne hanno coordinato i lavori), secondo cui le dimensioni rilevanti per il benessere sono numerose e non riconducibili unicamente a quella economica che, peraltro, è catturata solo imperfettamente dal Pil.

In uno dei tentativi, certamente ispirati dai lavori della Commissione, di «andare oltre il Pil», l’Istat e il Cnel hanno individuato ben dodici dimensioni del benessere (dalla salute, al paesaggio, alla qualità dei servizi, per citarne solo alcune) e proposto 134 indicatori di cui tenere conto nella valutazione del benessere sociale. In realtà il progetto dell’Istat e del Cnel è più ambizioso, come indica chiaramente il suo nome: Benessere Equo e Sostenibile. Ciò vuol dire che si aspira non soltanto a misurare il benessere ma anche a verificare che esso corrisponda a criteri di equità e di sostenibilità nel tempo. Tuttavia, se definire e misurare il benessere è difficile, ancora più problematico è esprimersi su ciò che è equo e su ciò che è sostenibile.

Torneremo su questi temi in più punti, per ora ci limitiamo a ribadire come in nessun senso il Pil possa essere considerato una misura soddisfacente del benessere e della sua evoluzione nel corso del tempo.

Policy maker realmente orientati ad assicurare il massimo benessere alla società che rappresentano dovrebbero tenere conto di altre variabili, la cui numerosità può essere ridotta o molto estesa. Le Nazioni Unite, per esempio, dovendo adottare una misura di quello che chiamano sviluppo umano dei vari paesi, hanno scelto di includere, oltre al Pil pro capite, due sole altre variabili: la speranza di vita e il grado di istruzione, che dovrebbero catturare due dimensioni molto rilevanti del benessere. L’Indice di Sviluppo Umano, regolarmente pubblicato a cadenza annuale dalle Nazioni Unite, considera anche, in una versione più raffinata, la dispersione all’interno della popolazione di queste variabili, cioè le disuguaglianze nei Pil pro capite, nelle speranze di vita e nei livelli di istruzione.

 

Per saperne di più: Pixel Politica economica

Politica economicaII_cover